I doveri dei Comunisti verso l’Italia

Non c’è Comune, non c’è luogo d’Italia di cui, nella storia iniziata quasi un secolo fa, il 21 gennaio 1921, a Livorno, i comunisti non abbiano memoria, non abbiano cura e non condividano la voglia di riscatto.
E’ da quel giorno, dal compagno Antonio Gramsci, dentro la lunga notte del fascismo, e con i compagni Palmiro Togliatti e Luigi Longo, attraverso la dura stagione della Resistenza e la ricostruzione democratica, fino al compagno Enrico Berlinguer, protagonisti delle più grandi conquiste sociali e civili che hanno dato agli italiani un sentimento e una dignità di popolo in Europa e nel mondo, che i comunisti traggono nuovo stimolo e nuova determinazione per lavorare alla rinascita del nostro Paese, dopo circa trent’anni di rovinoso degrado, di frantumazione di quell’unità faticosamente costruita.
Un Partito nuovo, un Partito di lotta alla sofferenza inflitta a questo Paese da una classe politica che lo ha privato della più grande e unitaria famiglia politica, genuina comunione di intenti e di impegno a non lasciare indietro nessuno, a continuare a promuovere le condizioni per una crescita civile e sociale, vera prefigurazione di una società nuova, solidale e giusta.
Una sofferenza, quella dei comunisti italiani in tutti questi anni, legata alla consapevolezza della disgregazione della nostra società, sia in termini territoriali, sia in termini di separatezza, se non di isolamento sociale, conseguente al prevalere di scelte politiche che hanno determinato la distruzione del concetto stesso di comunità nazionale.
Ripartiamo da qui, il Partito, e dal concetto di comunità nazionale per marcare un campo, un percorso che vuole includere chi è rimasto privo di uno strumento e di un’appartenenza che in tutti questi anni sono stati denigrati, sbeffeggiati da una politica fondata sul denaro e sui partiti personali, che dei bisogni dei singoli e dei valori comuni hanno fatto scempio.
Ripartiamo mettendoci al servizio della società e ricreando un luogo, i luoghi, dove riscostruire rapporti sociali, umani e dove far diventare protagonisti l’impegno e la condivisione di obiettivi e di conquiste per tutti. Uno strumento e luoghi che parlino la stessa lingua da nord a sud, dai piccoli centri alle grandi città, dove si incontrino e crescano insieme i giovani, le donne, gli operai e i lavoratori tutti, i produttori di vera ricchezza nella nostra società, anche coloro che contribuiscono con il proprio intelletto, la propria creatività o la propria capacità di sviluppare servizi e inventare soluzioni per migliorare la qualità della vita di tutti.
Un rinascimento e un risorgimento della comunità Italia che non può prescindere dalla volontà, dalla scelta di tutti i protagonisti della rinuncia allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’appropriazione del frutto del lavoro di altri uomini ai fini di un egoistico arricchimento individuale. Tale scelta di campo non può prescindere dall’uso dei mezzi di produzione e dei capitali quali strumenti di crescita dell’intera comunità e non dei singoli. Tanto ineguale è ormai la distribuzione della ricchezza, in Italia e fuori d’Italia, che appare inevitabile riportare sotto il controllo della comunità nazionale settori strategici per la crescita e la sopravvivenza stessa del Paese, e altrettanto inaccettabile appare l’esercizio di attività in regime di privilegio o di monopolio che hanno distrutto il tessuto produttivo stesso del Paese, con grave nocumento in termini di opportunità di lavoro, di crescita professionale, di perdita di intere aree di produzione, ormai desertificate e di interi settori produttivi, un tempo orgoglio e pregio per l’Italia intera.
Un marcare il campo, il nostro, che vuole ridare coraggio e che richiede il coraggio non solo di chi nel Partito Comunista Italiano si è sempre riconosciuto, ma anche di chi oggi è consapevole, perché lo vive sulla propria pelle o lo vede nelle persone attorno a sé che, se non la felicità, ma almeno la serenità, la dignità, il futuro non possono essere riconquistate individualmente, né diventare una remota e faticosa opportunità per alcuni, né un privilegio per pochi “eletti”.
Ricominciamo dal linguaggio, dalla semplicità delle parole, ma anche dall’impegno serio, patrimonio dei comunisti italiani, a leggere i problemi delle classi lavoratrici e di chi il lavoro non ce l’ha, ma anche di chi non trova spazio, né opportunità, ma vuole contribuire con la propria crescita al benessere di tutti.
Non promettiamo facili soluzioni, vogliamo lottare e ampliare la lotta affinché s’invertano le scelte che vedono soccombere la maggior parte del nostro popolo a vantaggio di pochi, che vede il nostro Paese pascolo di speculatori e dubbi investitori nostrani e stranieri, che si appropriano, depredano e distruggono le nostre risorse, le nostre vite e quelle dei nostri figli, per poi indicare un intero popolo come inetto e incapace.
Ci impegniamo a ricostruire una comunità, il Partito, su questi valori, la difesa dei diritti dei lavoratori, del diritto al lavoro per tutti e insieme sui valori fondativi contenuti nella nostra Costituzione: l’antifascismo, l’antirazzismo in tutte le sue forme di rifiuto dell’altro, del diverso, il ripudio della guerra come mezzo per risolvere le controversie fra nazioni, il rifiuto della violenza di genere e di ogni genere, il diritto alla libertà di pensiero e di espressione intese come arricchimento culturale per tutti e rispetto delle idee che non confliggano con la dignità e la libertà dell’individuo nell’ambito della comunità, il rispetto e la valorizzazione della natura e delle sue risorse, quale ricchezza di cui siamo temporanei beneficiari e che ci riteniamo obbligati a preservare e migliorare a beneficio delle future generazioni.
Il ripudio, infine, ma non ultimo, di tutte le forme di esercizio totalitario del potere. Riteniamo questo un punto rilevante e dirimente nella costruzione del Partito e nella valutazione della storia passata.
Molto prima della caduta del Muro di Berlino e dei regimi dei Paesi dell’Est Europa, e su una linea di continuità e di autonoma elaborazione politica, ispirata dalla conduzione unitaria della lotta al nazi-fascismo e delineata chiaramente con la strategia politica che Togliatti chiamò di «avanzata dell’Italia verso il socialismo nella democrazia e nella pace», Enrico Berlinguer fissò nel settembre-ottobre 1973, all’indomani del golpe di Pinochet, con le sue Riflessioni dopo i fatti del Cile, il punto di approdo dei comunisti italiani sullo sviluppo della democrazia in Occidente e sul rapporto tra socialismo e democrazia.
Ciò non costituì una Bad Godesberg dei comunisti italiani, ma anzi, di fronte all’incapacità della socialdemocrazia di risolvere i conflitti di classe e di costruire una società più avanzata e nell’ormai evidente fallimento di forme di “democrazie popolari” costruite a partire dall’acquisizione del potere attraverso la rivoluzione o grazie ad eventi bellici, ma costrette a un esercizio del potere avulso dalla partecipazione popolare, si riaffermava il forte convincimento della necessità di costruire una società nuova attraverso il più ampio coinvolgimento di popolo e la necessità di avviare tale costruzione anche procedendo ad alleanze con le parti più avanzate delle forze popolari non comuniste e, soprattutto, con quei ceti popolari che ad esse si affidavano politicamente e idealmente.
Una rinuncia alla via rivoluzionaria?
Un’abdicazione alla lotta di classe e al patrimonio culturale e ideale dalla tradizione marxista?
Assolutamente, no! Semmai la consapevolezza che la forza e la capacità metamorfica del capitalismo, dell’avversario di classe, richiedevano un più saldo e radicato coinvolgimento dei lavoratori e di tutti i ceti produttivi; la presa d’atto, se si vuole intendere la storia degli ultimi secoli, che il superamento dello “stato di cose esistenti” e la liberazione degli uomini dalla schiavitù del lavoro, intesa come sottomissione ai detentori dei mezzi di produzione, per essere conquista stabile e irreversibile non può che essere fondata sulla coscienza delle masse. E nello stesso tempo la necessità che i comunisti, pur sempre avanguardia del proletariato, assolvessero a un nuovo, più gravoso compito, di comprensione e inclusione di tutti i soggetti e i ceti popolari che al proletariato non erano (e non sono!) ascrivibili, imparando a leggere e a porre come un cuneo, tutte le contraddizioni esistenti fra i ceti dominanti e le masse popolari, in qualunque forma si manifesti la loro capacità di essere produttori reali di “ricchezza”.
A tal proposito, i comunisti italiani si riferiscono al pensiero marxista e a tutte le elaborazioni e sviluppi ad esso correlati come a un patrimonio unico, anche se con percorsi variegati, con cui confrontarsi e dai quali attingere insegnamento, in modo non dogmatico e anti-dialettico, per superarne i limiti e gli errori, portare avanti e realizzare in forma concreta l’obiettivo ultimo, conseguente all’analisi materialistica della storia, la società comunista, cioè l’ultimo dei modi di produzione, che chiude il ciclo storico della società divisa in classi, in cui tutti i mezzi di produzione passeranno unicamente nel possesso della comunità, gli "stati" verranno sostituiti da forme organizzative con compiti di "semplice amministrazione delle cose" e luoghi di regolazione dei rapporti fra le comunità, non vi saranno più distinzioni di classe poiché il lavoro, i mestieri di tutti saranno determinati non dalla condizione di censo alla nascita, ma dal sostegno alle capacità fisiche e intellettuali di ogni uomo e donna senza privilegio e vantaggio, ma quale naturale conseguenza dell'essere parte della comunità, non esisterà più la famiglia come configurata nel passato quale primo pilastro e strumento di dominio di società gerarchizzate, si dissolverà ogni tipo di religiosità, utili solo a difendere i privilegi delle classi dominanti e usati per porre in contrapposizione le classi subalterne o per "consolare" falsamente gli oppressi.

Tony Brusca

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