Torniamo all’inizio: la liberazione dell’uomo dall’alienazione.
A proposito di tale concetto, Marx si concentra in particolar modo sull’alienazione del lavoratore rispetto al prodotto del proprio lavoro, perché il bene che produce appartiene al capitalista, e anzi dipende da esso (è il bene prodotto che determina il suo stesso essere), è pertanto alienato ( = estraniato) dal suo stesso lavoro, poiché non produce per se stesso, ma per il capitalista e non possiede neanche il tempo che dedica al lavoro, perché esso è stabilito dal capitalista. Ancora è estraniato dalla sua stessa essenza, poiché il lavoro non è costruttivo e libero, ma forzato: non produce un bene per sé, né può disporne a suo piacimento (ad esempio per venderlo o barattarlo con altri beni di sua necessità o per piacimento). Infine è estraniato nel suo rapporto col capitalista, per il quale diventa un “mezzo” da sfruttare per incrementare il profitto e per conseguenza anche questo determinato rapporto “umano” diventa (come per le risorse della natura, ricordate?) un rapporto di “sfruttamento” e di perdita di risorse: il rapporto umano diventa conflitto e il conflitto, si badi, è fondamentalmente un conflitto, un’opposizione dialettica tra “forza lavoro” e “rapporti di produzione”.
Appare chiaro adesso il fine della “lotta di classe” che non è (solo e tanto) l’espropriazione della proprietà privata, ma la “riappropriazione” del prodotto del lavoro da parte del produttore (lavoratore) e la sua riconciliazione col lavoro stesso, il tempo ad esso dedicato e con tutti i soggetti che partecipano con lui ai processi di lavoro (o produzione), sia in forma manuale (lavoro fisico) che intellettiva (lavoro tecnico o di organizzazione dei processi produttivi).
Qui arriviamo alla nota “dolente”: la “dittatura del proletariato”.
L’Enciclopedia Treccani definisce così “dittatura”: “un regime politico caratterizzato dalla concentrazione di tutto il potere in un solo organo, monocratico o collegiale, che l'esercita senza alcun controllo”. E si, proprio un termine “brutale”.
Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo detto che la moderna società capitalistica è caratterizzata da rapporti di sfruttamento di risorse, naturali e umane (il lavoro), possibili solo grazie al possesso dei mezzi di produzione da parte della “classe” sociale borghese che attraverso il controllo delle forze produttive esercita anche una funzione rilevante nella “polis”, potendo esercitare una forte capacità di condizionamento delle istituzioni “politiche”, lo Stato e i suoi apparati.
D’altra parte cos’è lo Stato se non un regolatore dei rapporti fra i cittadini che risiedono su un territorio? Lo Stato, non solo garantisce l’unità di un “popolo”, la sua difesa e i rapporti con gli altri “Stati”, ma regola, entro i propri confini, i rapporti fra i cittadini che lo compongono: tutela i diritti individuali e i rapporti fra di essi, ma anche la sicurezza e, (udite, udite!!!) i diritti di “proprietà”, compresa, ovviamente, la proprietà dei mezzi di produzione.
Si comprende facilmente che tale diritto, che non rientra fra i diritti “naturali” della persona, come ad esempio il diritto all’integrità della propria persona fisica o anche a condizioni di vita dignitose, che comprendono le necessità materiali, quali l’alimentazione o un giusto riparo dagli eventi naturali, ma anche spirituali, quali la possibilità di relazionarsi con gli altri in modo paritario, cioè senza differenze dovute alla razza o al sesso, è tanto più fortemente garantito quanto più il potere economico è concentrato nelle mani della classe borghese che tali mezzi di produzione detiene.
Allora delle due una: o il controllo di tali mezzi di produzione diviene neutro e pertanto passa tout court allo Stato che li utilizza al fine di un equilibrato benessere per tutti i suoi cittadini, o lo Stato (inteso come insieme di poteri) cessa di essere condizionato dal potere economico borghese e la sua gestione e direzione passa alle classi dei produttori, cioè di coloro (e sono numericamente l’assoluta maggioranza dei cittadini!), che col proprio lavoro, fisico o intellettuale, producono beni (e servizi) che garantiscono il funzionamento dell’intera società.
In tal senso va inteso l’uso che fa Marx del termine “dittatura del proletariato”, cioè la gestione del “potere statuale” da parte delle sole classi lavoratrici (operai e contadini, ma anche tecnici e intellettuali) e delle altre classi di “produttori” (artigiani, commercianti, ma anche imprenditori, privi di mezzi di produzione, che ripartiscono il “plusvalore” in funzione del lavoro che lo ha determinato).
Va precisato altresì che tale “potere” non è inteso come la “dittatura di un potere assoluto”, svincolato da leggi e privo di organi di controlli elettivi, ma anzi il popolo esercita una piena funzione di scelta dei propri rappresentanti, senza altro condizionamento che non sia il benessere e il progredire di tutta la società. Per molti versi, tutte le funzioni di “potere”, nessuna esclusa, dalla gestione della produzione al funzionamento della stessa “macchina” dello Stato, dalla periferia fino al centro, sono organi di piena sovranità popolare con pari dignità.
In questa prima fase, che definiremo socialista, avviene il passaggio, con un seguito graduale di riforme, della proprietà dei mezzi di produzione o connessi con essa (fabbriche, banche, terra, sottosuolo, acque) dai privati a tutta la società e ben si comprende che “scompare” (si scompone direi), la classe borghese capitalistica in quanto tale, ma esiste ancora una differenza tra le classi, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ed esiste di necessità ancora lo Stato.
In questa fase ognuno “dà alla società secondo la propria capacità e riceve secondo il proprio lavoro”.
Nella seconda fase, il comunismo pienamente attuato, abbiamo una società pienamente omogenea di “produttori”, lo Stato, non in quanto centro di amministrazione, ma quale strumento di dominio di una classe sulla società, gradualmente si estingue.
Lascio ora la parola a Marx (da “Critica del programma di Gotha”): “In una fase piú elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita*; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”
(*come mezzo di promozione della persona umana)

Caro giovane, concludo (spero di essere stato utile, semplice e poco “noioso”) con due suggerimenti.

Guardati attorno, leggi, informati, valuta con la tua mente se i rischi che corre l’umanità sono o meno connessi all’attuale modello socio-economico-politico di società.

Considera, soprattutto nell’ipotesi della tua appartenenza (per sorte familiare o per possibile conquista personale) a una classe “privilegiata”, se l’“alienazione” del tuo essere nel possesso di beni oltre la misura dei tuoi bisogni, possa rendere la tua vita “migliore”.

Con affetto, Tony.

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